IL POZZO DI CLAUDIO BARGELLI*
Alta Val Ceno, estate 1950
Giacomino sapeva che là sotto nessuno l’avrebbe mai trovato. Quello era un nascondiglio sicuro. Stavolta quella smorfiosetta della Luci sarebbe rimasta a bocca asciutta. E con un palmo di naso. Quello era un luogo segreto. Inaccessibile. E tale sarebbe rimasto. Almeno, così pensava lui…
Nel caldo meriggio d’estate Giacomino, 13 anni e Lucetta, uno di meno, stavano giocando a nascondino nel vasto giardino di una antica casa padronale posta alla sommità di un colle. Da lassù si dominava tutta la vallata. Si diceva che, in tempi remoti, vi svettasse un turrito maniero, un inespugnabile castello, di cui ora sopravvivevano solo sbiadite vestigia. Muscosi ruderi divorati dalla fitta vegetazione. Assediata da erbacce selvatiche e da cespugliosi rovi, la casa era disabitata da molti anni. Serpi, lucertole e ramarri, unici custodi di quel mondo selvaggio.
Durante la bella stagione gli impavidi della combriccola si arrampicavano fin lassù, orgogliosi di conquistare il solitario avamposto. Quel luogo tetro e silenzioso incuteva un istintivo timore ma, al contempo, sollecitava la fertile fantasia dei novelli conquistatori. Una impresa da grandi, insomma. Il fiero sprezzo del pericolo. E di autentici pericoli si trattava, se i genitori li esortavano ad evitare quelle desolate solitudini. Potevano smarrirsi e precipitare in qualche dirupo. Senza contare che su quel posto circolavano strane voci. Meglio, molto meglio starvi alla larga.
Tediati dall’interminabile meriggio estivo, i due ragazzini erano saliti fino all’inviolata rocca. Luogo ideale per giocare a nascondino. E quando la Luci, finita la conta con il viso rivolto al vecchio tronco, aveva frugato ansiosamente con lo sguardo, non aveva scorto anima viva. Solo silenzio, rotto di tanto in tanto dal frinire delle cicale. Il sole ancora alto all’orizzonte, la fanciulla continuava a cercare a destra e a manca ma di Giacomino nessuna traccia. Come dissolto nel nulla. In preda ad un sottile turbamento, girò attorno alla vetusta dimora. Finestre senza imposte. Occhiaie vuote, rivolte al tempo perduto. Avvertiva un senso di inquietudine. Come se misteriose tragedie aleggiassero tra quei muri. Sussurri nella pietra. Sul retro dell’edificio, ecco l’indizio rivelatore: il vivace, inconfondibile berretto rosso abbandonato sull’erba, proprio sotto una finestrella protetta da una robusta inferriata. Ora tutto era chiaro. Giacomino l’aveva perso nella fretta di infilare il suo esile corpo – era magro come un’acciuga! – tra le sbarre, per intrufolarsi all’interno. Un bel nascondiglio, non c’è che dire, pensò la ragazzina. Ma ora l’aveva scoperto. Prese a chiamarlo, una, due, tre volte, a voce sempre più alta. Nessuna risposta. Ormai spazientita, Lucetta si fece coraggio e prese a calarsi, a sua volta, tra le sbarre. Dopo un bel salto, si ritrovò improvvisamente in un vasto scantinato in terra battuta. Immerso nella penombra, a stento illuminato da guizzanti spade di luce in cui fluttuavano microscopici corpuscoli filtranti dall’inferriata. Forse una cantina. La cantina della casa padronale. Un forte odore di chiuso, di muffa, di malsana umidità ristagnava nell’aria. Uno strano senso di oppressione l’assalì. Abituati gli occhi alla scarsa luce, dalla semioscurità affiorarono a poco a poco vecchi arnesi: grosse botti, damigiane, barili sfasciati, casse sgangherate, bottiglie, antiquati mobili e curiosi uccelli impagliati. Abbandonati chissà quando e da chissà chi. Oggetti inanimati, ammantati da un’uniforme coltre di polvere che ne confondeva i contorni. L’abito del tempo. Non un rumore. Una silente desolazione. D’improvviso, un insistente richiamo. Una voce proveniente dal basso. Dall’angolo opposto della cantina.
“Luci, Luci, vieni! Sono qui!”.
Era la voce di Giacomino. La ragazza avanzò cautamente tra il polveroso ciarpame, nella direzione da cui giungeva l’accorata invocazione. Percorsi alcuni metri, una porta corrosa dall’umidità e vestita di ragnatele le sbarrò il cammino. La voce proveniva da là dietro. Chinando il capo, varcò quella soglia. Nel buio quasi completo affioravano a malapena i primi sbrecciati gradini di pietra di una stretta, tortuosa scala che si perdeva verso il basso. Chissà fin dove arrivava…Là sotto il tanfo di muffa era ancora più greve. Prendeva alla gola. La prima, istintiva reazione della fanciulla fu di fuggire da quell’orrido buco ma, qualche gradino più in basso, la voce più nitida di Giacomino la esortava a raggiungerlo. Aguzzando la vista, scorse il viso dell’amico. Le fece cenno di scendere. Vincendo un’istintiva riluttanza, si inoltrò nel sottosuolo. Con enorme sollievo, raggiunse l’amico di giochi. Irritata per la sua sciocca imprudenza, stava rimproverandolo vivacemente quando, con il dito indice della mano destra ritto sul naso, Giacomino le intimò il silenzio. Ma la ragazzina, turbata e impaurita da quel luogo sinistro, proruppe:
“Andiamo via! Usciamo subito da qui! Qui dentro c’è qualcosa che non mi piace! È come se non fossimo soli…”.
Non fece in tempo a terminare la frase che un tonfo sordo li fece sobbalzare: una repentina corrente d’aria aveva sbattuto l’uscio alle loro spalle, richiudendolo. Nonostante gli strenui sforzi, la porta non accennava ad aprirsi. Erano prigionieri! Prigionieri in quell’orrido buco! Forse, scendendo lungo la scala esisteva un’altra via d’uscita. Ma fin dove si inoltrava quella scala? Che cosa avrebbero trovato laggiù? Stretti per mano, i due ragazzi iniziarono la discesa. Infine, si ritrovarono in un freddo e umido antro. Una tenebrosa caverna nella roccia della montagna. E quell’odore ristagnante. Sempre più forte. Putredine. Tanfo di morte. Una candela dimenticata in un angolo. Qualcuno era sceso prima di loro. Chissà quanto tempo prima…Con mani tremanti, Giacomino sfregò a più riprese un fiammifero e, una volta acceso, lo avvicinò alla candela. Una debole luce illuminò la spelonca. Uno spettacolo a dir poco raccapricciante: profonde nicchie scavate nella roccia, come enormi fauci pronte ad inghiottire il malcapitato. Arcani graffiti, simboli incomprensibili, astruse formule in una lingua sconosciuta. Appesi alle pareti, tenaglioni in ferro, ganci da macellaio e catene arrugginite, mazze chiodate, attizzatoi, lame acuminate. Crudeli strumenti di tortura. E, poco più in là, quella che, in tempi antichi, doveva essere un’orribile prigione: un profondo anfratto roccioso chiuso da robuste sbarre. Atterrito, Giacomino arretrò istintivamente. Lucetta si coprì il viso con entrambe le mani e si abbandonò ad un convulso pianto. Un pianto senza conforto.
“Portami via! Portami fuori di qui, Giacomino!”, singhiozzava disperatamente la fanciulla. Ancora avvinto ai ceppi e ad una pesante catena, là dentro uno scheletro li fissava con la bocca contorta. Orrendamente spalancata in un silente grido di dolore. Ammucchiati in un angolo, ossa, crani, scheletri accovacciati in posizioni innaturali. Una visione agghiacciante. Ovunque miseri resti umani coperti da logori brandelli di stoffa. Oltraggiati dai morsi dei roditori e delle misteriose creature che vivevano in quelle eterne tenebre. Una sinistra sala di tortura? Di certo, un luogo orribile in cui quegli sventurati, dopo aver patito sofferenze indicibili, avevano trovato una fine atroce, tra supplizi e tormenti.
Sconvolti, i due ragazzi si allontanarono, inciampando sulle ossa disseminate sul pavimento. Davanti a loro, nel bel mezzo della caverna, un semidiroccato pozzo in mattoni. Una sorta di terrificante abisso. Un baratro che si spingeva fin nelle viscere della terra. Giacomino avvicinò, per un attimo, il vacillante lume alla sponda del pozzo. Non ne scorse il fondo, ma laggiù, da chissà quale inferno, pareva provenire un tenue lucore. Fetore salmastro di organismi in decomposizione. E il cupo gorgoglio delle torbide, limacciose profondità dei secoli. Rotto, di tanto in tanto, da un suono flebile, indistinto. Un soffocato lamento? Una disperata invocazione di aiuto? O, forse, il gemito di dolore di quegli infelici?
Allontanandosi frettolosamente da quel luogo infernale, i ragazzi ripercorsero a ritroso il cammino e si ritrovarono dinnanzi alla porta chiusa. Qualcuno respirava, ansimava dietro di loro. Qualcuno lo seguiva. Un ansito maligno. Il respiro del male. Una creatura emersa dal pozzo per ghermirli? Con la forza della disperazione, riuscirono ad abbattere la porta. Si ritrovarono nella cantina. Raggiunsero la finestra e, d’un balzo, fuggirono da quell’orrore.
Li accolse la luce del sole e il rassicurante tepore del giorno. Lontani da quel mondo di tenebra. Sfiniti, le lacrime ad accarezzarne le gote, si abbandonarono a lacrime liberatorie. Il tramonto stava lentamente avvolgendo, nel suo purpureo abbraccio, i fianchi scoscesi del roccioso crinale. Presto le ombre del crepuscolo avrebbero inghiottito i contorni sbrecciati di quella casa maledetta.
Ma Giacomino e Lucetta non avrebbero dimenticato facilmente quel caldo meriggio estivo. Da quel giorno non sarebbero mai più stati soli…
CLAUDIO BARGELLI
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