LA VITA NEL VILLAGGIO
Le donne in cortile rammendavano parole, stendevano anni ad asciugare…
Da piccolo volevo bene a tutti i componenti della mia bella famiglia, ma quella cui ero più affezionato era la nonna Candida, con cui trascorrevo molta parte del mio tempo perché ovviamente era lei la “rasdora”. Era una donna straordinaria, una vera maestra di vita che mi ha insegnato tantissime cose.
Aveva conservato una eleganza e un portamento “inglese” dei tanti anni vissuti a Londra, ma sapeva farsi valere anche in casa. Ricordo che mi mandava a prendere il sale grosso al caseificio di Prè Vecchio, che era ad un paio di chilometri dalla nostra casa di Ferrai, dove prendevo a volte anche un po’ di formaggio provolone e ancora più raramente anche del burro. Andavo con un sacchettino e la corda per legare il sale, che fra tutte era la cosa più preziosa e mi sentivo grande e responsabile, anche se avevo solo 5 anni.
Mi incaricava di dar da mangiare alle galline e quando c’era da tirare il collo a qualcuna, mandava me a catturarla e mi aveva insegnato che dovevo stare attento e scegliere quella che usciva per ultima dal pollaio, perché questo stava ad indicare che era la meno arzilla. Mi piaceva molto stare con lei ed aiutarla. Qualche volta la nonna, la mattina presto, mi diceva: “Fausto, vai a prendermi un galletto”. Io obbedivo, conoscevo i galletti perché erano quelli con la cresta più grossa, si qualche volta mi sbagliavo, ma lei paziente mi chiedeva di riportare quella gallina e di scegliere “quella” con la cresta rossa e che continuava a fare chicchirichì.
Lei poi gli tirava il collo come niente fosse, lo spennava, lo cucinava e per il pranzo del mezzogiorno era bell’e pronto. Era svelta e bravissima.
Mi mandava nel pollaio appena fuori dal villaggio anche a raccogliere le uova, mi chiamava ad aiutarla quando c’erano da piantare i fagioli sull’argine del fossato che scorreva vicino a casa, da cui più facilmente si poteva prendere l’acqua per innaffiarli; lei piantava la zappa, abbassava il manico aprendo una fenditura nel terreno dove io calavo qualche fagiolo, e si continuava fino a terminare i fagioli.
Di quel bellissimo periodo ricordo che d’estate dopo il pranzo del mezzogiorno, gli uomini, stanchi perché si alzavano ogni mattina all’alba, andavano sempre tutti a fare un pisolino prima di riprendere il lavoro nei campi o nella stalla, mentre le donne, dopo aver rigovernato, si radunavano sotto al portico o nell’aia, all’ombra, a cucire, ricamare, aggiustare, chiacchierando in compagnia di quello o di quella, poi improvvisamente si mettevano a ridere come oche.
La nonna, intrecciando rametti di salice, mi faceva certi buffi berretti che somigliavano (diceva lei) a quelli dei marinai del Galles.
Un giorno mia madre, nel tagliarmi i capelli, poiché non stavo mai fermo, mi diede inavvertitamente una sforbiciata ad un orecchio, della quale porto ancora il segno adesso. Piansi tantissimo e smisi solo quando arrivò mia cugina e la sua amichetta di nome Anna, che mi portarono con loro a fare un giro giù all’Ongina. Figuratevi voi se potevo mostrarmi frignone di fronte a loro, e insomma dai, capitte ammè… FAUSTO FERRARI