UN COMMERCIO ALTERNATIVO: IL CONTRABBANDO NELL’APPENNINO SETTECENTESCO di Claudio Bargelli

Foto 1: D. INDUNO-I Contrabbandieri. Foto 2: J. B. C. COROT -I Contrabbandieri. Foto 3: S. Fiume-I Contrabbandieri

UN COMMERCIO ALTERNATIVO: IL CONTRABBANDO NELL’APPENNINO SETTECENTESCO di Claudio Bargelli

Ad un circuito economico lecito gravitante sul mercato granario urbano – trasparente, regolamentato, le cui contrattazioni si svolgono alla luce del giorno e in cui si esprime compiutamente l’”utopia annonaria” – si contrappone un percorso alternativo, celato allo sguardo paternalistico del potere: uno spazio oscuro in cui le autorità ducali non riescono a proiettare il proprio rassicurante fascio di luce. Al di fuori degli itinerari obbligati che dalle zone di produzione confluiscono immancabilmente nella “piazza di mercato”, si aprono dunque vasti territori in cui gli scambi si intrecciano occultamente, in aperto contrasto con la stereotipata normativa annonaria: è questa la regione ove domina il contrabbando.
Poco oltre la metà del Settecento, durante l’amministrazione del Du Tillot, vengono messi a fuoco gli sfuggenti contorni di questa ambigua figura:

“Sotto il nome di sfrosatori e contrabbandieri si intenderanno tutte quelle persone che, armate particolarmente con armi da foco, si troveranno dietro a bestie, carri o altro istrumento carico di commestibili, mercatanzie, o altri generi di qualsivoglia sorta commestibili che condurranno avanti di sé, o scorteranno qualsiasi altra sorta di animali, o bestiami, e molto più se saranno uniti essi conduttieri sino in numero di tre persone, e ancora se saranno in maggior numero, che in tal senso si considerano tutti i compagni ancorché non fossero armati, e precisamente uniti, ma però in distanza tale da potersi dire moralmente e in attitudine di darsi vicendevolmente aiuto” (grida del 3 luglio 1754).

Ben al di là delle isolate imprese di sprovveduti montanari, si tratta, il più delle volte, di accorti operatori commerciali a conoscenza dei meccanismi economici che sovrintendono alla domanda e all’offerta delle granaglie, unitamente all’andamento dei prezzi negli stati confinanti. I traffici illegali prosperano lungo la dorsale appenninica, laddove sono ulteriormente incoraggiati dal sentimento di riottosa indipendenza e dalla conseguente insofferenza ad ogni disposizione vincolante in materia. I contrabbandieri si spostano in gruppo e ben armati, tanto da imporre il divieto per gli abitanti delle terre alte di portare armi. A nulla valgono, peraltro, le reiterate misure preventive e repressive finalizzate alla sorveglianza delle plaghe montuose, tradizionalmente investite dai più intensi flussi clandestini.
I generi contrabbandati sono i più svariati: sale, tabacco, acquavite, oggetti preziosi e, ovviamente, cereali. Particolarmente a rischio appaiono, comprensibilmente, le aree di confine – in particolare le terre di montagna, vere e proprie roccheforti dello “sfroso” -, ove la stessa conformazione orografica agevola i traffici illegali. Per di più, la peculiare posizione geografica del ducato – crocevia tra vari Stati – favorisce il proliferare di diffusi scambi contra legem che alimentano le tenaci radici del contrabbando. Percorrendo nottetempo impervi sentieri, gli “sfrosatori” valicano i monti per esportare clandestinamente le loro merci oltre frontiera.
L’endemica piaga va sempre più estendendosi nel corso del XVIII secolo accentuando l’atteggiamento di diffidenza, che non risparmia i comuni interessati e gli stessi doganieri. Parallelamente, aumenta il rigore nei confronti degli “attentatori del bene pubblico”, mentre a coloro che collaborano con la giustizia viene assicurata l’impunità nel caso di ferimento e di uccisione degli “sfrosatori” nel corso della cattura. Alcuni esempi sono sufficienti a sottolineare l’entità e la complessità del reato in oggetto, uno dei principali assilli del ministro francese.
Nel 1765, ad esempio, il podestà di Corniglio denuncia una diffusa corrente di esportazioni illecite nella zona di Tizzano – alla base di un “continuo trasporto de’ grani, e massime di frumento, che vanno fuori di questo dominio, su quello di Lunigiana” -, sollecitando l’intervento della milizia forense onde “prevenire per tempo questo disordine, che qui comincia a minacciare una specie di scarsezza, specialmente di frumento”. Oltre a Tizzano, Corniglio e Bardi, anche la Valle dei Cavalieri costituisce un ideale covo di contrabbandieri, al punto da distaccarvi stabilmente truppe armate per ristabilire l’autorità ducale. Ma ciò non basta. Nelle autorità annonarie va insinuandosi il dubbio di connivenza tra gli “sfrosatori” e i tutori dell’ordine, come accade nel turbolento territorio di Berceto, in cui il fenomeno in questione appare generalizzato (soprattutto in direzione di Pontremoli). In proposito, Domenico Calderoni, funzionario della Real Giunta d’Annona, confida al Du Tillot pesanti sospetti che coinvolgono le stesse forze dell’ordine: “essendo facile, che qualch’uno degl’Ufficiali del Paese abbia il proprio interesse nello smaltimento de’ loro grani […], poca cura si prende perché non si facciano illecita estrazione, quando piuttosto non s’abbia a dire, che le garantisca”. La preoccupante situazione – che va aggravandosi in coincidenza delle ripetute carestie degli anni Sessanta – rende necessario l’invio di veri e propri distaccamenti militari, fino a corrispondere una ricompensa in denaro – proveniente dalla vendita del grano contrabbandato e degli animali impiegati per il trasporto – alle milizie forensi, “ai bargelli e ai loro esecutori”. Non è raro, dunque, il ricorso al braccio militare e questo non soltanto nelle zone montuose. Nell’autunno del 1767, anche nelle terre di Medesano e al confine con il Reggiano – uno dei luoghi tradizionalmente “più pericolosi per lo sfroso” – viene inviata una pattuglia incaricata di sorvegliare tutta la fascia rivierasca del fiume Enza, in particolare i territori “al di sotto del Molino di Guardasone, e andando all’insù verso il Monte, e verso la villa di Castione de’ Baratti” , raccomandando un’accresciuta vigilanza nei giorni di mercato, con l’ordine di arrestare chiunque “tentasse sfrosi” .
Il frequente intervento dell’esercito è motivato dal fatto che, il più delle volte, il dilagante contrabbando non si esaurisce, come si è visto, nelle imprese isolate di singoli individui ma coinvolge vere e proprie bande organizzate composte da contrabbandieri di professione, i quali si spostano “per lo più in truppa, ed armati” , ad evidente testimonianza della pericolosità sociale di un reato i cui perpetratori fanno ricorso a sempre più ingegnosi artifici ed espedienti, non disdegnando l’aperta violenza.
Per le sterili economie montuose lo “sfroso” assurge, dunque, a questione di sopravvivenza, invano contrastato dalle truppe di linea o dalle milizie locali. Non sono pochi, infatti, i “montanari le cui sostanze consistono in pochi muli, e che non hanno altra maniera di far vivere le loro famiglie se non col commercio de’ grani che portano ai vicini che ne abbisognano e che li pagano bene […]. Impedir loro questo commercio equivarrebbe a una condanna a morte […]. Giova avvertire che al coraggio uniscono una cognizione delle strade le più difficili, e che ai loro carichi, quando sono d’importanza, fanno precedere degli esploratori”. Claudio Bargelli

 

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